Marianna e Paolo sono in crisi da tanto tempo. La separazione si impone: è l’unica cosa su cui, con dolore, sono ormai d’accordo entrambi. La nuova casa di papà Paolo non è pronta, ci vorrà almeno ancora un mese prima che lui possa trasferircisi, ma Viola, 5 anni, e Federico, quasi 7, sanno già da mesi che “papà e mamma non vanno più d’accordo e si lasceranno”. “Sanno”, a dire il vero, è una parola grossa. Quel che è avvenuto è che mamma e papà, in modi e tempi diversi, e soprattutto separatamente e con sfumature diverse, credendo di far bene ma in realtà cedendo all’ansia, hanno entrambi comunicato loro, con largo anticipo sul prodursi effettivo della separazione, quel che si prospetta. “Ma secondo me non hanno mica capito”, commenta Paolo. Viola non perde occasione di avvicinare le mani dei genitori. Federico, che è abituato da sempre ad andare agli allenamenti di minibasket solo con papà, ora chiede ogni volta perchè non si unisca a loro anche la mamma.
Federico e Viola non “sanno”. Federico e Viola non “hanno capito”. Federico e Viola hanno colto il succo della faccenda, il succo amaro e tossico della minaccia di perdita e di abbandono. Sono piccoli, quei bambini: che senso ha, se non quello riconducibile all’ansia degli adulti, prospettare loro un evento, ancora tutto da definire e attuare, intriso di fantasmi di perdita e abbandono, lasciandoli in balia di un’attesa che, per la percezione del tempo dei piccoli, contiene, insieme, lo spavento dell’immininenza e l’ansia di un evento lontano e oscuro?
Possibile che facciamo tanta fatica a capire, anzi a sapere d’istinto, che parlare con i bambini non è come parlare con un adulto? Che loro hanno bisogno di modi e tempi e parole a misura loro?
Ma davvero non siamo più capaci di vedere che loro non sono adulti di bassa statura? Che sono intelligenti e brillanti e competenti ma sono persone piccole, in crescita, vulnerabili come un fiocco di neve?
